Commercianti e industriali nel Regno d’ Italia

 

Commercianti e industriali nel Regno d’ Italia

Parte I

Se vogliamo esaminare la rilevanza numerica della classe commerciale e industriale nel Regno d’Italia, è utile rifarsi agli studi statistici realizzati dall’amministrazione regia, molti dei quali oggi sono conservati presso gli Archives Nationales di Parigi.


Napoleone Re d'ItaliaNapoleone Re d’ Italia


Annotiamo, al riguardo, che esistevano uffici competenti, specificamente preposti all’aggiornamento di appositi “elenchi professionali”, redatti con grande attenzione al dettaglio, a scopo fiscale. Secondo queste analisi – citiamo tra tutte la relazione sullo “Stato degli esercenti arti o ramo di commercio nel 1811” – nel Regno d’Italia le persone che «esercitavano la professione o qualche branca affine al commercio» ammontavano a quota 225.440. Se concentriamo la nostra attenzione sui singoli Dipartimenti, vediamo che le realtà che contavano in maggior numero questa categoria erano le seguenti: il Dipartimento dell’Olona (19.700); quello dell’Adriatico (17.512); dell’Adige (16.964); del Mella (13.114); del Metauro (12.860); dell’Agogna (11.605); del Mincio (10.966); dell’Alto Adige (10.761); del Serio (10.552); dell’Alto Po (10.451); del Reno (10.062); mentre tutti gli altri ne possedevano in numero più esiguo.

La rilevazione si riferisce in via esclusiva a coloro che vivevano del commercio e dell’industria (proprietari di manifatture e di magazzini) e non teneva conto degli artigiani e di chi lavorava nelle campagne. Come ben si può immaginare, questa classe era naturalmente avversa alla politica, fortemente protezionista, inaugurata dai francesi, e reclamava, attraverso i suoi rappresentanti, maggiore libertà di commercio.

Le loro petizioni erano lunghe dissertazioni economiche, nelle quali veniva richiamato il pensiero di grandi economisti: da Adam Smith a Etienne Bonnot de Condillac, fino a richiamare Antonio Genovesi, e altri ancora, per i quali «le ricchezze e la produzione del paese privilegiato non dovrebbero incontrare nessun ostacolo»; così si legge in un estratto di registro del Consiglio legislativo, relativo a una seduta del 24 giugno 1802.

Ma il governo imperiale rimase ovviamente sordo a simili argomentazioni; ciononostante, possiamo affermare che l’età napoleonica non fu solo foriera di aspetti negativi per i commercianti e gli industriali.

Non mancarono, infatti, anche alcune note senz’altro positive.

Per esempio, si assisté all’abolizione delle vecchie maestranze artigiane; inoltre il Codice civile e quello del commercio, introdotti da Napoleone – così come il nuovo diritto commerciale e bancario – apportarono numerosi benefici. Basti pensare, al riguardo, che il Codice di commercio, entrato in vigore in Italia nel settembre 1808, sopravvisse alla dominazione napoleonica, e venne mantenuto pressoché intatto durante gli anni della restaurazione asburgica.

Infine – aspetto, quest’ultimo, di estrema rilevanza – il governo napoleonico si adoperò intensamente a sviluppare la rete dei trasporti, inglobando le strade italiane nel sistema generale delle comunicazioni dell’Impero. Si tratta di un nodo che rivestiva un’importanza strategica vitale per il nuovo assetto inaugurato dall’Imperatore dei francesi. Da questo punto di vista, i benefici, su questo fronte, furono notevoli anche per il Regno, dal momento che le strade del Nord Italia, sebbene fossero ad uno stato più avanzato rispetto al reame di Napoli, erano tuttavia in condizione arretrata, se le paragoniamo ad altre realtà europee, come la Francia o la Baviera.

Per impulso di Napoleone, il Regno d’Italia investì ingenti somme per lanciarsi alla conquista degli Appennini, per aprire nuove strade su sentieri disagevoli, per irradiare nuove vie verso sud e nord, da Milano e da Bologna.

G. Lepora

 

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