Il ladrocinio della Santa Casa di Loreto (1797)

Il ladrocinio della Santa Casa di Loreto (1797)

Il 23 giugno 1796 l’armistizio di Bologna sancisce una pace umiliante tra il papato e la Francia.
Un cospicuo versamento in denaro e alcuni territori vengono dalla Santa Sede ceduti al vincitore; per di più, il trattato prevede una clausola umiliante, cioè l’obbligo di consegnare ai francesi numerose opere d’arte. Una clausola, quest’ultima, fortemente voluta da Napoleone in persona, tant’è vero che nominò appositi Commissari alle Arti, incaricati di individuare e selezionare i beni di maggiore pregio.
A distanza di soli sette mesi da quella tregua, il conflitto si riaccende; vi pone fine la battaglia di Faenza del 2 febbraio 1797. L’esercito pontificio viene definitivamente sconfitto e nulla più si frappone tra il generale Bonaparte e la conquista del territorio delle Marche.


Spoliazioni napoleoniche, LoretoLe spoliazioni napoleoniche nello Stato Pontificio.


In tale contesto, il 9 febbraio, mentre Napoleone punta su Ancona, i primi reparti francesi arrivano a Loreto. I soldati prontamente si danno al ladrocinio di ori, argenti, quadri, porcellane, biancherie; per spregio, vengono scalpellati i simboli del potere pontificio. Inoltre irrompono nelle sale del Palazzo Apostolico; la razzia non risparmia neanche il Santuario della Santa Casa, dove da secoli è conservata la statua della Vergine, oggetto di culto di migliaia di pellegrini.
Una descrizione di quei drammatici eventi ci viene fornita da monsignor Agostino Rivarola, governatore di San Severino. Tra l’altro, nelle sue lettere, sono molti i riferimenti all’incandescente situazione politica in cui allora si trovavano le Marche, scosse – così come il resto d’Italia – da moti e sentimenti giacobini, dove peraltro non mancavano, persino nelle cerchie ecclesiastiche, i più fervidi fautori della République.

Tra questi s’annoverava Ludovico Sensi, arcidiacono di Loreto. All’arrivo dei francesi, questi lestamente aveva indossato la coccarda tricolore ed era andato incontro all’invasore, ottenendone in cambio la nominato di governatore generale della città. Il suo predecessore, monsignor Celani, era nel frattempo fuggito oltre il Tronto.
Rivarola rievoca le tristi vicende di Loreto in una lunga lettera indirizzata all’anziana madre, Anna Pellegrina Cambiaso, e datata 18 marzo 1797:

«[…] l’arcidiacono della Catedrale di Loreto […] andò a prendere i Comissarj francesi in Ancona, […] si presentò in Loreto e andò a primo pezzo a spoliare con furore e con ischerno la capella della Madonna […] Ma non finisce qui l’empietà di questo indegnissimo uomo, fù egli costituito dal Comandante Governatore della Città e Vicario Generale e questo mostro abusando di queste illegitime rapresentanze si è occupato a dare un secondo sacco alla Chiesa. I Francesi avevano lasciati 24 calici ed egli gli ha ridotti a dodici, avevano lasciato l’ostensorio ed egli lo ha levato tanto che la benedizione si dà colla Pisside, ha bruciati tutti gli abbiti sacri dove era mistura d’oro e di argento sebbene da molti di essi si potesse stacar l’oro senza rovinare il fondo, ha devastato il Palazzo Apostolico dove era un appartamento per il Papa di veluto rosso trinato d’oro tutto nuovo […] finalmente questo vaso d’iniquità ha incassata la statua della Madonna e vi ha scritto sopra Parigi».

A questo punto, narra Rivarola, Sensi si recò «in Chiesa coi muratori» per «demolire la Santa Casa», ma tale fu lo sdegno della popolazione di fronte a questo proposito che lo «scelerato» fu costretto a desistere.
In tutte queste disgrazie, Rivarola ravvede «il castigo d’Iddio e per i traditori che abbiamo avuti e per l’avilimento di un popolo coragioso che si è lasciato imporre da un pugno di gente che non erano più di 10 o dodici mila al sommo». E qui la critica di Rivarola diviene impietosa nei confronti dei «soverchiamente impauriti pontificj concigliatori», cioè i capi della Chiesa che, a suo avviso, hanno voluto frenare l’impeto anti-francese della popolazione. Si comprende bene quale sia, invece, lo spirito di Rivarola, che aveva guardato con una certa aspettativa alle insorgenze che scuotevano la regione:

«A Cingoli che non è più distante di qui che dieci miglia, hanno amazzati i Comissarj […], a Fermo a Civita-Nuova e altrove è accaduto lo stesso e i Francesi a vista di questi oltraggi conoscendo di esser pochi e temendo conseguenze funeste hanno pregato per mettere in pace i popoli insorgenti […] Se noi non eravamo traditi dai nostri […] dei Francesi non ne scappava uno».

Di lì a poco, il monsignor Governatore sarà espulso dai territori pontifici, e sarà costretto a riparare a Genova presso la propria famiglia.

R. M.

Nota della redazione:
La lettera in questione è conservata presso l’archivio Rivarola della Società Economica di Chiavari, (plico n. 208) ed è citata in L. Sansone (a cura di), Lettere e carte politiche di monsignor Rivarola governatore di San Severino e Macerata, Chiavari, Internòs Edizioni, 2016.

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