Profumi e sapori dei caruggi

magnifici-palazzi-vicoli-senza-soleProsegue il viaggio del giovane doganiere Jacques Boucher attraverso il reticolo dei caruggi genovesi, alla scoperta della Superba, delle sue bellezze … e anche dei suoi sapori. Bighellonando per i vicoli, ha infatti modo di imbattersi (e di gustare) alcune prelibatezze della tradizione culinaria genovese. Non tutte – a dire il vero – lo soddisfano, altre invece lo lasciano estasiato, tant’è che di fronte a un piatto di ravioli non riesce a nascondere il proprio entusiasmo. Il suo tour gastronomico è un viaggio che si snoda tra vicoli e palazzi, tra le venditrici ambulanti di Piazza Banchi e le cucine delle dimore aristocratiche.

Di seguito è riprodotto un estratto dal libro Magnifici palazzi, vicoli senza sole, che fa seguito a due precedenti articoli apparsi su questo sito: A spasso tra Molo e Maddalena e Il fascino dell’Annunziata e la spettacolare via Balbi.

 

 Magnifici palazzi, vicoli senza sole
Profumi e sapori dei caruggi

Jacques ci informa che le vie genovesi sono, solitamente, piuttosto pulite. Ciò a causa, soprattutto, della siccità, che «fa sì che a Genova, per tre quarti dell’anno, si possa andare per strada in calze di seta senza paura di macchiarle». (…) Si tratta però di vie piccole e strette, al punto che nella grande maggioranza dei casi le carrozze non riescono materialmente a transitarvi (…)

Tutto ciò crea molte difficoltà alla viabilità cittadina. Non a caso, ancora nel 1818, un anonimo osservatore in visita a Genova riferisce che spostarsi «da un estremo della città all’altro» diviene una “missione impossibile” quando cerimonie o parate bloccano piazza Acquaverde, vero e proprio ganglio vitale del traffico cittadino.[1] Per quanto riguarda, per esempio, Salita Santa Caterina, apprendiamo – sempre ad opera di questo anonimo – che «prima del 1816 era difficile con una carrozza investir questa ascesa per la di lei angustia».[2] Inconvenienti non da poco, come si può immaginare, che non a caso determineranno, nei successivi decenni, interventi massicci e profondi sulla fisionomia della città, con tanto di abbattimento di chiese e oratori, immolati alle esigenze di ammodernamento urbanistico.


s-lorenzoLa cattedrale di S. Lorenzo, immagine tratta dal volume


Da ciò si vede bene, dunque, che a Genova le problematiche legate a mobilità e trasporti –  tema spinoso tutt’oggi all’ordine del giorno – hanno radici piuttosto radicate. Non a caso, Jacques riferisce che i signori genovesi, per muoversi, spesso e volentieri rinunciano alle loro sfarzose carrozze, troppo ingombranti, e la rimpiazzano con le ben più agili portantine; queste procedono speditamente anche nei vicoli più stretti, avanzando in fila indiana e sorrette da due uomini ciascuna.

Riprendendo la nostra passeggiata, apprendiamo poi che per le strade cittadine non è raro imbattersi in banchi e banchetti, ricchi d’ogni genere di leccornie. Veniamo così a conoscenza di una vera e propria passione per quello che oggi – con l’abituale ricorso agli anglicismi di fronte a ogni presunta novità – viene chiamato street food, cioè il “cibo di strada”. Nulla di nuovo sotto il sole, a dire il vero. Infatti – ci informa Jacques – a Genova «si mangiano molti funghi, li vendono pure per strada, già cotti, sono degli ovuli». Inoltre ovunque ci si può imbattere in «venditori di piccole gallette scure, sistemate su teglie di ferro». Si tratta del «castagnaccio», che Jacques non gradisce granché: «Preferisco la polenta». I genovesi, invece, ne sono davvero ghiotti e tanto il “popolino” quanto la nobiltà si assembrano «davanti a queste cucine ambulanti».

Confrontandosi poi con altri autori è possibile trovare numerose conferme.
Scopriamo, per esempio, che nelle vie del Molo risuonano, per tutto il giorno, le urla dei venditori di ortaggi, di frutta, di pesce e di formaggi, accompagnate dal vociare più sommesso degli avventori. Alcune donne, munite di caldaie mobili, preparano direttamente in strada i loro fritti; altre invece si aggirano nella folla “armate” di testo e offrono farinata ai passanti.[3] E, da questo punto di vista, non costituisce una novità neppure l’ormai nota catena, specializzata nella preparazione di pastasciutte take away; infatti i genovesi, già all’epoca, erano dei grandi mangiatori di pasta, e la consumavano per strada, acquistandola dai venditori ambulanti.

Insomma, possiamo davvero dire che se oggi – camminando all’ombra dei portici di Sottoripa, tra focaccerie e sciamadde – è possibile togliersi più di uno sfizio, anche i nostri antenati avevano di che trattarsi bene durante le loro passeggiate pomeridiane. E «siccome per strada si mangia, per strada bisogna pure bere; così, si beve». Una mattina Jacques si trova in piazza Banchi e assiste ad una scenetta a dir poco curiosa. Una botte di vino si sfonda, sgorga un vero e proprio «ruscello» e «subito, più di cinquanta persone si sono sdraiate a ventre piatto per bere da questo fiume improvvisato, che ben presto fu prosciugato». Ma Jacques, che in generale non è un estimatore del vino, trova quello ligure particolarmente sgradevole: «il vino di questo paese è ancora peggio che altrove, è trasparente come mostarda».

Va però detto che se castagnaccio e vino locale non suscitano in lui troppa ammirazione, non altrettanto si può dire per il resto della cucina ligure: «Quanto ai cibi (…), li trovo squisiti». A riprova di ciò, egli si sottoporrà, nei mesi successivi, a veri e propri tour de force gastronomici, tanto da dover spesso declinare alcuni inviti, per evitare di procurarsi «delle belle indigestioni». Nel febbraio 1806, riferendo al padre di un’escursione nella Riviera di Ponente durata più di tre settimane, dirà che «sono stati ventitré giorni senza sosta, o meglio, ho appena finito un grande pranzo durato ventitré giorni, perché siamo sempre stati a banchetti e a feste di nozze».

Egli apprezza, in modo particolare, «i ravioli», vero simbolo della cultura gastronomica genovese, tanto da venire decantati in versi dal più noto poeta dialettale, Martin Piaggio, in un delizioso componimento intitolata proprio I Raviêu.[4] Non mancano poi, tra gli estimatori di questo prodotto, anche alcuni nomi prestigiosi. Ricordiamo, tra tanti, Niccolò Paganini, che nel 1838 scriverà, da Nizza, che «ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione rammentando gli squisiti ravioli»;[5] in altre parole al Grande Virtuoso, al solo pensiero, viene l’acquolina in bocca.

Nulla di cui meravigliarsi, dunque, di fronte all’entusiasmo di Jacques. A conquistarlo, peraltro, non sono solo i ravioli, ma anche «le lazagne, i talleirini, lo stuffato» nonché una particolare «minestra di parmigiano» nella quale, forse, possiamo riconoscere un “antenato” dell’odierno minestrone. Ma rimarrà deluso chi cercasse, nelle lettere, il benché minimo riferimento al tradizionale pesto, che pure, in quegli anni, è senz’altro diffuso e consumato; si tratta tuttavia di una pietanza caratteristica delle cucine popolari, consumata nei giorni di astinenza dalle carni, e poco apprezzata nelle tavole aristocratiche frequentate dal giovane doganiere.

In generale, il suo entusiasmo trapela da numerose lettere; quando, per esempio, un vecchio amico, il barone de Wasservas, gli domanda informazioni «sui costumi, la religione e la politica di questo paese», egli risponde allegramente in questa maniera:

«Io vi dico solo che qui si mangiano in gran quantità ravioli che, conditi con il parmigiano, costituiscono un piatto eccellente. Le persone che se ne intendono dicono che, per completare il tutto, bisogna berci sopra un buon bicchiere di vino (…); ma siccome io non amo il vino (…) bevo un buon bicchiere d’acqua fresca, che va bene lo stesso».

Luca Sansone,
Magnifici palazzi, vicoli senza sole

Note:
[1] Descrizione della città di Genova da un anonimo del 1818, Sagep, Genova 1969, p. 193.
[2] Ibid., p.165.
[3] M. G. Cevasco, Statistique de la ville de Gênes, Genova 1838.
[4] M. Piaggio, Raccolta delle migliori poesie edite e inedite, Tipografia dei Fratelli Pagano, Genova 1846, p. 748.
[5] Cit. in R. Morbelli, Il boccafina, ovvero il gastronomo avveduto, Casini, Roma 1967, p. 223.

Bibliografia:
Descrizione della città di Genova da un anonimo del 1818, Sagep, Genova 1969.
Boucher de Perthes, Sous dix rois. Souvenirs de 1791 a 1860 par M. Boucher de Perthes, Tome Premier, Jung-Treuttel, Paris 1863.
M. G. Cevasco, Statistique de la ville de Gênes, Genova 1838.
M. Piaggio, Raccolta delle migliori poesie edite e inedite, Tipografia dei Fratelli Pagano, Genova 1846, p. 748.
R. Morbelli, Il boccafina, ovvero il gastronomo avveduto, Casini, Roma 1967.

 

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