Un libro su Agostino Rivarola alla Società Economica di Chiavari

Un libro su Agostino Rivarola
alla Società Economica di Chiavari

Getto Viarengo ne parla con l’autore

 

Il 23 settembre 2016, presso la Sala Presidenziale della Società Economica di Chiavari, si è tenuta la presentazione del libro Lettere e carte politiche di monsignor Rivarola, edito da Internòs e realizzato da Studi Napoleonici – Fonti Documenti Ricerche, con il patrocinio del Comune di San Severino Marche.
Nell’incontro hanno portato il loro contributo Enrico Rovegno, bibliotecario dell’Economica, lo storico Getto Viarengo e Luca Sansone, curatore del volume. Di seguito pubblichiamo gli appunti scritti da quest’ultimo, su cui si è articolato il suo intervento.

Invito rivarola chiavari

La ricerca svolta presso l’archivio Rivarola della Società Economica ha portato alla pubblicazione di questo libro: Lettere e carte politiche di monsignor Rivarola.
Un libro particolare che offre a mio avviso molti spunti di riflessione interessanti, che oggi proveremo a inquadrare.
Un libro che, come è chiaro sin dal titolo, non è saggio, non è una biografia. È una antologia di documenti, perlopiù lettere di carattere privato (all’incirca una sessantina) a cui si aggiunge una decina di altre carte di varia natura.
Qualche informazione su come nasce questo libro. È un testo che nasce da un progetto promosso dall’associazione Studi Napoleonici – Fonti Documenti Ricerche, che si è costituita proprio con lo scopo di riportare alla luce, attraverso la ricerca d’archivio, delle storie spesso poco note.
Con una attenzione particolare alle testimonianze dirette, fonti che, come poche altre, riescono a fornirci, per così dire, la “fotografia” di una società, coi suoi protagonisti, le idee, gli umori ecc.
Il libro nasce quindi a partire da questo presupposto, con il patrocinio del Comune di San Severino Marche, città bellissima, ricca di storia e tradizioni.
Da ciò emerge la ricchezza degli archivi dell’Economica, miniera di informazioni per la storia locale e non solo per la storia locale. E le lettere di Rivarola ne sono la dimostrazione.

Agostino Rivarola è un personaggio noto, più o meno.
Sicuramente, chi frequenta la Biblioteca della Società, avrà presente i ritratti posti all’ingresso del palazzo; uno dei due – quello in abito cardinalizio – è Agostino Rivarola.
Poi a qualcuno il nome rievocherà un grandissimo protagonista del cinema italiano, Ugo Tognazzi, che proprio al personaggio di Rivarola ha consacrato una delle sue interpretazioni più riuscite. In un film del 1969, regista Luigi Magni, che è Nell’anno del Signore, che si svolge a Roma nel pieno delle fibrillazioni carbonare, con Rivarola governatore di Roma che instancabilmente si dedica alla repressione della carboneria.
Ma la storia di Rivarola era iniziata molto prima, e la sua fu un’esistenza molto intensa e movimentata, tant’è vero che lui stesso, in una lettera, dirà di aver avuto una vita «strapazzata».
La storia raccontata in questo libro ci porta indietro di quasi trent’anni rispetto alla Roma del film di Tognazzi.
Agostino Rivarola proviene da una prestigiosa famiglia del patriziato genovese molto addentro nelle vicende politiche della Repubblica. Suo padre, il marchese Negrone Rivarola, fu ambasciatore e senatore; suo fratello, Stefano, che nel 1791 fonderà la Società Economica, anche lui ebbe incarichi diplomatici (Parigi, San Pietroburgo…).
È quindi una famiglia illustre, quella dei Rivarola, che come tante altre famiglie dell’aristocrazia genovese ha case e proprietà a Chiavari, dove spesso trascorrono più tempo che a Genova.
Agostino è un figlio cadetto e viene avviato alla carriera ecclesiastica. Va a Roma, studia in un prestigioso istituto, il Collegio clementino, si laurea, prende gli ordini… fa il tradizionale percorso di un giovane aristocratico avviato a quel determinato tipo di carriera.
E arriviamo all’anno che ci interessa, il 1793. Lui ha pressappoco trentacinque anni e arriva il primo incarico di un certo peso nell’amministrazione pontificia. La nomina a governatore della città di San Severino, dove resterà per i successivi quattro anni. Incarico a cui poi seguirà la nomina a governatore di Macerata nel 1802, dove resterà fino al 1807.
Quindi Rivarola si ritrova a governare questi territori pontifici, tra il 1793 e il 1807, cioè in un periodo che è davvero complicato. Siamo nel periodo della piena affermazione napoleonica nella Penisola. Con la Chiesa che più volte si trova in urto, anche violento, con la Franci, e con tanto di periodiche ondate di invasioni.
Emblematico al riguardo che entrambi i mandati di Agostino si concludano in modo infelice, con la destituzione ad opera dei soldati francesi. E il secondo mandato finisce addirittura con l’arresto.

Numerosi quindi gli episodi descritti, raccontati attraverso gli occhi di un diretto protagonista. Rivarola è un uomo che è profondamente calato nella realtà del suo tempo, riveste incarichi di rilievo, si trova in determinate situazione dove lui non è spettatore passivo, ma elemento attivo.
Per esempio, dopo l’esperienza a San Severino, prende parte al Conclave di Venezia del 1799-1800.
Siamo in un momento piuttosto particolare. Nel 1799 è morto papa Pio VI. Una morte che suscita scalpore. È morto in esilio, prigioniero in Francia. E per di più il suo corpo viene sottoposto a oltraggio, perché per alcuni mesi rimane senza sepoltura.
E quando poi finalmente si decide di seppellirlo, viene sepolto nel cimitero locale di Valence, deposto in una cassa semplicissima, di quelle riservate ai poveri, su cui viene scritto: «Cittadino Gianangelo Braschi – in arte Papa». E il municipio di Valence esprime provocatoriamente l’augurio di aver seppellito l’ultimo papa della storia.
Questo per aver chiaro che aria tirasse durante il Conclave. Che tra l’altro straordinariamente si tiene a Venezia, perché in quel momento Roma è stata da poco liberata dall’occupazione francese.
E Venezia è territorio asburgico, e quindi inizia un tira e molla perché il conclave si indirizzi verso un nome gradito al padrone di casa, l’imperatore d’Austria.
Risultato: il conclave dura tre mesi e mezzo, nella confusione più totale.
Agostino partecipa in qualità di notaio apostolico e ci racconta un po’ di aneddoti.
Ci descrive il suo incontro con molti cardinali tra cui alcuni nomi abbastanza importanti (p.es. i fratelli Doria Pamphilj….), e ci racconta le esequie svolte per il papa. E lo fa con tono irriverenti, prendendosi beffa di monsignor Brancadoro, la cui «orazione funebre (…) è riuscita molto ma molto al di sotto del sublime argumento tanto che una lingua piegata ai Sali di Pasquino ha detto che il Povero Pio VI era destinato ad essere martiriato in fatti ed in parole».
Poi ci riferisce delle voci incontrollate che circolano sul futuro pontefice.
Il 6 ottobre 1799 scrive: «È difficile il pronosticare sulla futura elezione. Fra i più vecchj e fra i più dotti pare che non uscirà poiché i primi sono tenuti per morti e i secondi per troppo vivi, all’aurea mediocrità di robustezza come d’ingegno pare riservato il papato».
Il 5 novembre scrive «i più nominati al soglio di Pietro sono giovani». Passano undici giorni dopo e cambia di nuovo tutto, dato che scrive «del papa risorge la voce che sarà vecchio come io opinavo prima».
E quindi, con poche battute, Agostino ci riesce a trasmettere l’atmosfera e la confusione in cui si svolge il conclave.

C’è da dire che gli avvenimenti descritti nelle lettere vengono esposti con una vivacità incredibile.
Da questo punto di vista, senz’altro le lettere sono molto interessanti, soprattutto perché hanno tanto da raccontarci sulla personalità di Rivarola.
Secondo me è questo l’aspetto più interessante del libro.
Ci permettono di conoscere Agostino Rivarola, con le debolezze, i vizi, le inquietudini ecc. che così raramente emergono dai libri di storia.
Ci permettono di osservarlo nella sua vita quotidiana, con dei risultati talvolta simpatici.
Questo perché le lettere sono scritte con un tono vivace. E sono anche piuttosto sgrammaticate, e piene di errori. Lui stesso di sé dirà di avere un carattere «di galina» e spesso dovrà chiedere aiuto al proprio segretario Paolo Cacciatori. Al riguardo, il libro riproduce fedelmente correzioni, sottolineature, cancellature ecc.
Nelle lettere espone i problemi quotidiani che affronta, problemi molto terreni per così dire.
E quindi lo troviamo mentre prova a appianare alcune beghe familiari.
Lo troviamo per esempio mentre prova a rassicurare il fratello Stefano, che è agitatissimo perché ha paura che sua moglie abbia una tresca con un altro uomo. E non un altro uomo qualsiasi, dato che si tratta di Girolamo Rivarola, fratello minore di Stefano e Agostino.
Aprendo una parentesi, in una lettera senza data (non contenuta nel libro) scrive invece a Girolamo, che è un soldato e ha fama di essere un don Giovanni, che ha una storia con una ballerina; Agostino versa fiumi di inchiostro per dissuaderlo dal proseguire questa relazione scandalosa…
Oppure nell’aprile 1803 lo troviamo mentre si dà da fare per trovare marito a Mariannina, figlia di Stefano, la quale non doveva esattamente essere uno splendore di fanciulla, dato che nelle lettere Agostino la definisce «la tua gibbosa pupilla».
Nelle lettere, lo zio Agostino ci racconta le peripezie per trovarle marito … il 27 gennaio 1804 informa il fratello di aver finalmente «qualche cosa in vista: si tratterebbe di combinare il matrimonio con un giovane sano e bello, e benissimo educato».
Più oltre: «se credete che possa andare avanti a trattare con questo […] sarà anche bene che per tutti i casi facciate fare un ritratto della Giovane da mandare giù, che però non sia tanto adulata dal Pittore per non tradire troppo apertamente la verità».
Non sappiamo se questo ritratto sia mai stato realizzato, fatto sta che il matrimonio non va in porto…
Oppure uno degli aspetti che più spesso viene fuori è quello delle ristrettezze economiche in cui Agostino versa.
Ne riferisce in tantissime lettere, spesso pretendendo che, da casa, gli inviino denaro.
E si rivolge soprattutto a un certo don Giuseppe Daneri che è un nome nel quale ci si imbatte non di rado nelle pagine del libro. Daneri infatti è colui che amministra le finanze della famiglia Rivarola, secondo un’abitudine diffusa nel patriziato genovese, che selezionava i propri economi tra le file del clero.
È dunque a questo don Daneri che Agostino indirizza le sue richieste. In particolare ha paura che i suoi interessi non siano tutelati e che Stefano faccia un po’ quello che vuole coi soldi della famiglia.
E in queste lettere Agostino si lascia andare anche in più occasione a un gergo piuttosto scurrile:
4 settembre 1797, a don Daneri: «Se mai non poteste mandare quatrini perché gli aveste improntati a Stefano pensate a farvi reintegrare perché io voglio disporre di ciò che è mio […] Il tempo dei complimenti, anzi dirò meglio della coglionagine è passato».
16 settembre, a Stefano: «è troppo vero quel proverbio che chi troppo tira alla fine strappa. Io sono stanco di far nei miei affari di Genova la figura del coglione, e di sentire che ogni volta che dò qualche comissione mi si risponda sempre da voi con tante restrizioni, […] e come se mi faceste la carità. Io non voglio carità ma voglio quel che mi conviene. […] vedrò se saprò trovare il modo di avere ciò che mi conviene».
Il 10 aprile, ancora a don Daneri, questa volta con un tono abbastanza minaccioso: «vi  dico e altamente vi dico che voglio essere pagato […] Nessuno è più buono di me quando si sta a cose ragione, ma quando mi si vuol burlare e prendere giuoco di me divento furioso e mi protesto capace di tutto».
E questi sono solo alcuni esempi che ci danno il quadro di quello che Agostino definisce l’«ecconomico bordello» di casa Rivarola, dal quale forse possiamo anche ipotizzare che al di là dei maneggi presunti di Stefano e Daneri, forse le finanze della famiglia, in quel momento, non erano troppo floride…
Dopodiché queste lamentele suscitano delle reazioni abbastanza infastidite nei suoi interlocutori. Anche perché a dire il vero il nostro Agostino si lamenta tanto, dopodiché è uno a cui piace la bella, piace il lusso, spendere soldi. Lui stesso ammette di avere una «passioncella» per ori e argenti.
Per esempio il 4 marzo 1796 scrive al fratello di aver iniziato a consumare tabacco, e «dato che non ho altra scatola che una che mi vergognerei di usare per viaggio in presenza de miei eguali fuor di questo paese in cui sono Governatore, vi prego di inviarmene una d’oro».
E non disdegna, poi, anche altri vizi , ben più disdicevoli per la sua posizione. In una lettera a Stefano (8 aprile 1796) troviamo una raccomandazione per Daneri: «le lire cinquantadue sono destinate a farmi un piccolo fondo a Genova per pagar le putane. Le tenga per ora in deposito che me le anderà somministrando a due da sei soldi e otto per volta quando sarò in Genova che di più non pago, se lui poi avesse in questi tre ultimi anni rovinata la piazza pagando di più vi vorà pazienza. Diteli che da questo paragrafo conoscerà in che enorme distanza sono dall’Arcivescovado».
Quindi possiamo mettere assieme tutti questi tasselli e ricavarne un ritratto vivido di Rivarola.

Per finire, Agostino si interessa moltissimo a tutte le vicende che riguardano la Liguria. Le segue con grandissima  apprensione.
E infatti incalza con una certa insistenza amici e parenti perché, da Genova, gli forniscano notizie il più possibile precise e circostanziate su quanto avviene «in patria».
Il 20 maggio 1794 si raccomanda così a don Daneri:
«Non mi lasciate ignorare le notizie del nostro Paese che richiamano i riguardi di tutta l’Europa».
Il 7 aprile 1796 chiede invece al fratello di essere costantemente tenuto informato, giacché «la gazetta ligure, che pure avevo richiesto, non mi viene spedita con l’assiduità che vorrei. Le nuove della patria sono interessanti, adesso datemele o fatemele dare settimanalmente».
E, di lì a poco, scrive un po’ arrabbiato perché nessuno lo ha informato che a Genova vi sono complotti giacobini: «mi viene un paragrafo di lettera di Genova […] che dice di una congiura scoperta, il pericolo grave in cui siamo stati e il buon stato attuale […] Potete credere quanta specie mi abbia fatto di non vedermi scrivere nulla di tutto questo direttamente da Genova e specialmente da voi […] Spero che nel momento che scrivo sia in corso e molto vicina ad arrivarmi anzi domani una vostra lettera che mi raguagli di tutto».
Stesso discorso nel maggio 1797, quando a Genova si assiste a un vero e proprio tentativo di golpe giacobino e lui scrive alla madre: «Io sono nella massima agitazione […] mi pare di rilevare che Genova dovette rapresentare in quelle ore il giudizio universale Per carità non mi lascino ignorare cose di tanta importanza […] Ho la testa affascinata e fin che non mi tranquilizzo non sò tener proposito d’altra cosa».
Questo per quanto riguardo la Liguria e le vicende politiche che lo riguardano.
Poi va detto che il suo pensiero talvolta corre a Chiavari, da cui è costretto per i suoi incarichi a stare a lungo lontano. In alcune lettere si ripropone di tornare a casa, in particolare il suo desiderio è quello di assistere alla tradizionale festa dei lumini.
Il 9 giugno 1796 scrive: «Che bella cosa sarebbe, se potessi farmi improvisamente trovare a Chiavari per i lumini». 
Il primo luglio 1796: «Io pensavo di farvi una improvisata a Chiavari apposta per i lumini, ma non è stato possibile».
E quindi è proprio un pensiero fisso che ritorna più volte.
E d’altronde questo spettacolo dei lumini che vengono lasciati andare alla deriva in mare è un qualcosa che lascia a bocca aperta gli osservatori dell’epoca.

 

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