La carica dei dragoni a Dego

Ronco4. Il dramma dell’occupazione

Antonino Ronco, saggista prolifico, ha curato, sulle pagine de “Il Secolo XIX”, nel 1989, una serie di articoli in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese. La redazione di “Studi Napoleonici – Fonti Documenti Ricerche” ha deciso di pubblicarli sul sito, in modo di rendere finalmente accessibile ai lettori quel materiale, di indubbio interesse ma purtroppo difficilmente reperibile. 

La carica dei dragoni a Dego
La cavalleria francese mette in fuga gli austriaci

Il territorio dell’attuale provincia di Savona, in particolare la zona tra Varazze e Albenga, fu teatro, nell’ultimo decennio del Settecento, di eventi assai importanti legati alla Rivoluzione francese. Non solo, si può senz’altro dire che, dando nome alla vittoria di Dego e Montenotte, proprio il Savonese tenne a battesimo l’Epoca napoleonica. La gloria di comparire nell’elenco delle battaglie iscritte sull’arco di Trionfo dell’Étoile toccò innanzi tutto a Loano dove l’Armata d’Italia, comandata nominalmente dal generale Schérer, ma in pratica guidata da Andrea Massena, conquistò una delle più nette vittorie delle Campagne della Rivoluzione, anche se poi i generali non seppero sfruttarne il successo.

Tra l’invasione dell’aprile 1794 e la battaglia di Loano (novembre 1795) passa oltre un anno e mezzo, periodo assai lungo soprattutto se visto con gli occhi delle popolazioni liguri, sia dei territori sabaudi o legati al Piemonte, sia dei paesi del Genovesato, coinvolti, questi ultimi, in una occupazione strisciante giustificata da esigenze belliche.


Dragoni francesi alla Battaglia di JenaDragoni francesi alla battaglia di Jena, 14 ottobre 1806


L’estate del 1794 trova i francesi attestati a Loano, a Balestrino, nell’entroterra di Albenga in Val Tanaro. L’obiettivo dell’offensiva, iniziata il 6 aprile col passaggio del confine di Ventimiglia, cioè scendere in Piemonte per costringere all’armistizio il Re di Sardegna e rifornire le truppe nei pingui magazzini della Valle Padana, non era stato raggiunto. Non solo ma anche la speranza di una immediata ripresa delle operazioni parve sfumare quando il governo francese (La Convenzione) in conseguenza della non facile situazione militare e di opportunità politiche, decise di inviare la prevista offensiva contro le piazzeforti piemontesi di Demonte, Cuneo e Ceva. Napoleone Bonaparte, uomo di punta dello stato maggiore dell’Armata d’Italia, non poté contrastare questa scelta militare in quanto, proprio in quel periodo, subito dopo il Termidoro, era stato arrestato per sospetto «roberspierrismo» e tenuto, per qualche tempo, in carcere a Nizza.

L’accantonamento dei piani difensivi francesi in Liguria concesse agli avversari il tempo di prendere le opportune contromisure. Alle richieste di aiuto avanzate da Vittorio Amedeo III, l’Austria si mosse e il generale De Wins concentrò alcune divisioni nella zona di Acqui con l’intenzione di attaccare sul fianco le posizioni francesi a Loano. Il disegno degli imperiali era risalire la valle della Bormida di Spigno e scendere a Finale, per poi occupare Vado e Savona con l’aiuto di un corpo da sbarco inglese. Il concentramento di forze nemiche tra Aqui e Novi non sfuggì ai francesi i quali decisero – in base ad un piano studiato a Parigi da Bonaparte, nel frattempo riabilitato – non soltanto di contrattaccare il nemico ma di estendere l’occupazione sino a Vado per prevenire le mire dei coalizzati su quel porto.

L’operazione che stroncò sul nascere la minacciosa offensiva austriaca ebbe inizio il 19 settembre quando novemila uomini, al comando di Massena, avanzarono da Bardineto verso Millesimo e quindi, di sorpresa, piombarono nella valle adiacente affrontando il nemico con il sostegno di altre forze francesi provenienti dal colle di San Giacomo. Di fronte all’attacco combinato il generale austriaco Colloredo si vide costretto a ripiegare e a portarsi nella piana di Dego dove avvenne lo scontro decisivo. Alle ore 15 del 21 settembre i francesi investirono lo schieramento del nemico, superiore per numero e favorito da ottime posizioni difensive. Scontri sanguinosi si accesero sulla collina di Supervia e all’estremità opposta della breve pianura dove gli austriaci erano favoriti da una ripida scarpata.

I combattimenti proseguirono per tutto il pomeriggio e verso sera, temendo qualche sorpresa durante la notte. Colloredo decise, per risolvere la situazione, di gettare nella mischia anche la cavalleria. Gli ulani di Meszaros piombarono sulle fanterie francesi, e le avrebbero certamente travolte, se Dumerbion non avesse, a sua volta, fatto intervenire i dragoni di Beaumont. Questo scontro di reparti a cavallo, anche se di proporzioni limitate, garantisce al fatto d’armi di Dego (il primo scontro intorno a Dego, ve ne sarà un altro due anni dopo) una priorità assoluta: fu infatti la prima volta, nella storia delle guerre della Rivoluzione, che la cavalleria francese si scontrava in battaglia con quella austriaca.

Non essendo riuscito neppure con l’intervento degli ulani a ricacciare i francesi, durante la notte, Colloredo ordinò il ripiegamento e portò le sue truppe in salvo verso Novi. Dopo questo successo i francesi estesero l’occupazione sino a Vado, territorio genovese, ma la loro posizione si fece in tal modo anche più difficile.

L’avvicinarsi dell’inverno accrebbe il dramma dell’occupazione e non solo per i francesi. I magazzini erano vuoti, i raccolti dilapidati anzitempo. La carestia investiva non soltanto i paesi classificati come nemici, ma anche i sudditi genovesi. Infatti da un monte all’altro, da un villaggio all’altro, da una posizione più in basso ad una più in alto, l’occupazione si estendeva a macchia d’olio. Specie nelle zone di «contatto» tra gli opposti eserciti, ogni ritegno venne ben presto a cadere. Gli invasori si stanziarono a Finale, a Zuccarello, a Carcare. Reclutando mano d’opera, aprirono strade, apprestarono opere di difesa. L’acquiescenza di molti consoli nel lasciar mano libera ai militari apparve tanto preoccupante che il governo genovese scrisse lettere di biasimo, ordinando alle autorità locali almeno di protestare per quelle violazioni della neutralità della Repubblica. Il governatore di Sanremo, uno dei pochi che cercò di opporsi, vide il suo palazzo invaso e devastato e a stento riuscì a salvare la vita rifugiandosi a Genova.

I soldati repubblicani avevano ordini severissimi di rispettare le proprietà genovesi, ma di fronte alla fame le disposizioni restavano lettera morta. I comandanti dei reparti cercavano di dare un colpo alla botte e l’altro al cerchio, come si dice. La tradizione locale riferisce in proposito episodi come questo: una donna, tornando alla sua cascina, vide un soldato francese che si allontanava addentando l’ultimo formaggio che le restava per nutrire i suoi figli. Senza indugio andò a protestare dal comandante, a chiedere giustizia. L’ufficiale fece schierare i suoi uomini e disse alla derubata di indicare il ladro, il quale sarebbe stato subito fucilato. La donna lo riconobbe immediatamente, ma non ebbe il coraggio di denunciare.

Pochi mesi dopo l’ingresso delle truppe in Liguria cominciò a diffondersi, nelle zone occupate, una terribile epidemia di febbre «intestinale», come la definirono i medici. Lo stato di prostrazione in cui si trovava la popolazione, la mancanza di cure con i pochi ospedali accaparrati dai francesi, favorirono il diffondersi del contagio. I morti imputridivano lungo le strade e le chiese erano impraticabili per il fetore che saliva dalle cripte stipate di cadaveri. A Oneglia le autorità francesi si videro costrette a caricare gli ammalati sulle navi e a mandarli a Nizza. Solo negli ultimi giorni del gennaio 179 ne furono sfollati più di mille. L’epidemia non risparmiò le popolazioni liguri. Per fare appena qualche esempio, a Pieve di Teco i morti furono 24; ad Albenga, a febbraio si erano già avute venti vittime. A Diano 50 persone si ammalarono dopo essere state a messa; per l’aria infetta, fu detto. Le autorità sanitarie incontravano gravi difficoltà a trovare locali dove ricoverare i contagiati perché gli abitanti si opponevano all’apertura di ospedali nei centri abitati.

Antonino Ronco, Il Secolo XIX, 1989

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