Ponente invaso dai repubblicani

Ronco3. L’attacco del generale Massena

Antonino Ronco, saggista prolifico, ha curato, sulle pagine de “Il Secolo XIX”, nel 1989, una serie di articoli in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese. La redazione di “Studi Napoleonici – Fonti Documenti Ricerche” ha deciso di pubblicarli sul sito, in modo di rendere finalmente accessibile ai lettori quel materiale, di indubbio interesse ma purtroppo difficilmente reperibile. 

Ponente  invaso dai repubblicani
Truppe sabaude in fuga, territori genovesi occupati

Il Principato di Oneglia, come territorio appartenente al Re di Sardegna, venne a trovarsi in una condizione tutta particolare al momento dell’invasione francese del 1794. Per i repubblicani, in guerra contro il Piemonte, la città e le due valli erano in tutto e per tutto suolo nemico. Identica la posizione di Loano, città sabauda, nonché quella dei feudi sparsi per la Liguria e dipendenti, per antichi diritti sanciti nel 1743, dalla corte di Torino. Si consideri, per esempio, che il feudo di Dolceacqua, dominio dei Doria, dopo l’occupazione fu subito aggregato al Distretto di Mentone, cioè annesso alla Francia.


battaglia-di-loano-novembre-1795La battaglia di Loano, novembre 1795


Ma se le «oasi sabaude» del Ponente ebbero a sopportare regimi di occupazione particolarmente pesanti, grossi guai e traversie sanguinose subirono anche le popolazioni dell’interno nella Riviera di Ponente. Gli abitanti delle vallate a ridosso del confine del Roia e di quello piemontese erano tutte molto povere per cui la propaganda rivoluzionaria che riusciva a filtrare attraverso il confine vi trovava spesso terreno favorevole. Sta a dimostrarlo la piccola rivolta scoppiata, a Castelfranco, oggi Castelvittorio, un piccolo borgo vicino a Pigna. Nel dicembre del 1792, per una questione di pascoli – e non era un argomento da poco per un paese di pastori e boscaioli – un gruppo di uomini insorse contro abusi e ingiustizie al canto del «Ca ira», inno giacobino che preoccupava i governanti genovesi più dei fucili delle truppe. Difatti, immediatamente, il governatore di Sanremo Vincenzo Spinola inviò quaranta soldati a riportare l’ordine e ad evitare che il pericoloso esempio fosse seguito dai paesi vicini.

Gli oligarchi genovesi erano chiaramente più pronti a reagire alle contaminazioni ideologiche che non alle invasioni militari. Infatti, pur essendo noto da mesi che i francesi si apprestavano a «passare» sul territorio della Repubblica per occupare Oneglia, il governo non fece nulla per apprestare una difesa qualsiasi; e questo nonostante che più di una voce, a Genova, consigliasse una «neutralità armata».

Ma forse, tutto sommato, fu un bene che il colonnello Bacigalupo, comandante la guarnigione di Ventimiglia, fortezza di confine, avesse ai suoi ordini soltanto 160 uomini, non tutti efficienti, quando ebbe inizio l’invasione. Nella notte tra il 5 e il 6 aprile il generale Arena, che comandava l’avanguardia francese, si presentò a Bacigalupo per annunciargli che l’armata del generale Dumerbion era in marcia per raggiungere Oneglia, e che, ben presto, sarebbe arrivata sotto le mura della fortezza ligure. Bacigalupo si limitò a protestare perché i repubblicani violavano la neutralità genovese e ad inviare un aiutante a constatare la verità di quell’annuncio. Poco dopo le parole di Arena ebbero la più ampia conferma: ventimila uomini erano in marcia lungo il mare e sulle strade di montagna. Cominciava una specie di D-Day per l’inerme e impaurita Liguria.
Abbiamo già raccontato che cosa capitò a Oneglia [vedi: Seimila cannonate su Oneglia e I genovesi sconfitti a Oneglia], in quell’occasione e in seguito, ma anche i paesi dell’entroterra ebbero le loro grandi giornate.

Il corpo d’invasione, comandato dal generale Andrea Massena, nizzardo, che legherà il suo nome alle principali operazioni militari di quegli anni in Liguria, era stato diviso in diverse colonne: troppe colonne diranno gli storici militari, escludendo che in quel piano di campagna potesse esservi lo zampino del generale Bonaparte. Le cose comunque andarono bene lungo il litorale, assai meno nell’interno. Per dirla in breve una delle brigate, proveniente da Sospello, non riuscì a passare il Roia in piena. Un’altra, bloccata dai piemontesi al passo del Muratone, non arrivò in tempo per sostenere l’attacco contro la fortezza di Saorgio. Bufere di neve rallentarono ovunque la marcia delle truppe verso i caposaldi piemontesi, con perdite soprattutto di muli, finiti nei burroni sulle difficili montagne di Triora. Massena arrivò il giorno 9 a Montalto dove avrebbe dovuto incontrare una colonna della divisione che aveva occupato Oneglia, ma questa aveva proseguito verso la val Tanaro. Restavano invece i piemontesi che dopo una prima resistenza a Sant’Agata, si erano trincerati al Pizzo, al Passo della Mezzaluna e tenevano ancora Carpasio e Rezzo. Lo stesso Massena guidò i suoi uomini all’attacco di queste posizioni.

Il giorno 11 il generale si presentò ad Oneglia a rapporto dai «rappresentanti in missione» Agostino Robespierre e Cristoforo Saliceti che lo accusarono di debolezza nella condotta delle operazioni e di aver calcolato male i tempi, senza tener conto degli imprevisti della stagione.
L’avanzata francese proseguì nei giorni seguenti, ma senza affrontare le difese piemontesi. Il giorno 15 i repubblicani occuparono Pieve, centro genovese dell’Alta Arroscia, il giorno successivo Nava e il 18 raggiunsero Ormea dove trovarono viveri, munizioni e, nel castello 12 grossi cannoni di bronzo fusi ai tempi di Luigi XV.

Con la fine del maltempo ripresero le operazioni sui monti. Aspri combattimenti si accesero intorno alla fortezza di Collardente, al Saccarello e alle poderose fortificazioni di monte Fronté. All’attacco di Collardente partecipò anche il Commissario Filippo Buonarroti (episodio di cui si vantò per tutta la vita) prima di diventare il terrore dei monarchici onegliesi. Accanto a lui cadde il generale Brusié che aveva ottenuto da Massena il permesso di guidare personalmente l’assalto alla fortezza.

Per quanto i sabaudi resistessero valorosamente, avendo perso alcune posizioni chiave, il 27 aprile il generale Colli, comandante degli austro-sardi, ordinò ai suoi di ripiegare verso il colle di Tenda. Il 28 Massena, scendendo da Cima di Marta, tagliava la strada della val Roia, alle spalle dei difensori di Saorgio. La possente fortezza che sbarrava l’accesso al colle si arrese il 2 maggio: resa disonorevole che portò il comandante St. Amour davanti al plotone di esecuzione per tradimento.

Dopo qualche mese di combattimenti e di marce, i francesi erano riusciti a sloggiare i piemontesi dalle vallate di Oneglia, da Loano e da molte posizioni sui monti di Triora e in val Tanaro. Ma l’obiettivo principale della campagna, cioè portare la guerra in Piemonte, invadere le ricche terre della Pianura Padana, non era stato raggiunto. Le porte del territorio nemico restavano sbarrate dal Colle di Tenda a Ceva.
Cominciava per le popolazioni del Ponente, da Ventimiglia sino a Savona, il dramma dell’occupazione. E non soltanto occupazione delle terre sabaude o feudali, anche di quelle genovesi.

Antonino Ronco, Il Secolo XIX, 1989

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